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Affitto locali commerciali, il canone è liberamente determinato dalle parti

Partiamo da un caso concreto per ricordare un principio di natura più generale: la Corte d’appello ha infatti esaminato il caso di un proprietario/locatore che lamentava il mancato pagamento dovuto dalla controparte nel caso di un’immobile commerciale. In parole ancora più semplici: si è trattata di una situazione in cui il conduttore non ha pagato i canoni d’affitto.

Ebbene, dopo il ricorso alla Cassazione, e con l’ordinanza n. 33884 del 12 novembre scorso, la Corte ha ribadito un concetto fondamentale quando si parla di contratti di affitto per locali commerciali: cioè al proprietario e all’inquilino è sempre concessa la facoltà di pattuire insieme il canone d’affitto, che deve essere (sempre) crescente in favore del locatore, per tutta la durata dell’affitto.

L’unica eccezione, invalicabile, è costituita dal caso in cui le stesse non abbiano inteso, in questo modo, dissimulare e neutralizzare in maniera illegittima gli effetti della svalutazione monetaria, in violazione dell’art. 32, L. 392/1978 (come modificati dall’art. 1, comma 9-sexies, L. 5 aprile 1985, n. 118). Pena la nullità del contratto stesso.

Il caso in esame

Nel caso in esame, non è emersa alcuna prova che evidenziasse la volontà delle parti di dissimulare o neutralizzare una svalutazione monetaria e, pertanto, dev’essere esclusa la nullità del patto con il conseguente riconoscimento dell’infondatezza delle censure mosse dal ricorrente/soccombente in appello.

Con l’ordinanza esaminata, dunque, la Corte enuncia il principio di diritto secondo il quale, in applicazione del più generale principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso diverso da quello di abitazione, sono legittimi, tanto il patto con il quale le parti, all’atto della conclusione del contratto, predeterminano il canone in una misura differenziata e crescente per tutto l’arco temporale del rapporto, quanto il patto successivo con il quale le parti provvedono consensualmente, nel corso del rapporto, a stabilire una misura del canone diversa da quella originariamente stabilita.

Ne consegue, inevitabilmente, l’ulteriore soccombenza dell’incauto ricorrente/debitore, che resta, pertanto, vincolato alla corresponsione degli importi pattuiti e non versati, sull’errato presupposto della nullità (inesistente) dei citati accordi pattizi.

di Roberto Rizzo

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